Megalopoli di Agneta Holst

Philippe Daverio
Maggio 2011

Forse gli anni Ottanta del secolo scorso sono stati realmente ruggenti. Lo erano a New York dove si scopriva che era sufficiente far guadagnar molti soldi ai giovani per renderli allegramente spendaccioni; lo erano a Parigi dove ci si stava preparando a celebrare i duecent’anni della rivoluzione e nel frattempo era stato per la prima volta eletto un presidente socialista, sicché gli intellettuali adolescenti si vestivano di nuovo di grigio scuro come se fossero esistenzialisti e come se il mondo fosse ancora conquistabile in lingua gallica. Lo erano in Italia perché la situazione come sempre era fuori controllo: si stava uscendo dagli anni di piombo per entrare in quelli dove Milano sarebbe diventata teoricamente da bere. E si sapeva già che bevendo ci si inebria. Ma a Milano in particolare furono ruggenti col ruggito del gatto mammone, né glorioso né però stupido. La città stava uscendo da un decennio ch’era stato realmente, autenticamente e giustificatamente depressivo. Le bombe di piazza Fontana, l’uccisione di Moro, i sequestri, tutto l’insieme d’una strategia tuttora oscura, avevano cancellato l’umore gaio della ricostruzione e l’esperienza esaltante che aveva traghettato il dopoguerra attraverso la creatività del primo design e la provocazione delle arti visive fino alla liberazione sociale conclamata del ’68. I sessantottini erano figli di Fontana e di Manzoni, dei Castiglioni e di Zanuso; erano figli appena cresciuti che avevano inventato le poltrone gonfiabili che rotolavano negli scaloni della Triennale occupata, si stravaccavano sulla poltrona Sacco o sulla poltrona guantone Joe. L’imagination au pouvoir. Durò poco; venne subito la seconda dichiarazione: rien ne va plus. Certo, in quei dieci anni grigi successivi, i guru mantennero accesa la fiammella del gioco estetico e intellettuale, l’Ettore Sotsass che scopriva i colori delle Indie, i Mendini che promulgavano l’ironia della fantasia, il sempre critico Dino Gavina che editava Duchamp e Man Ray con Ultramobile mentre nella Firenze Bella Addormentata nel Bosco, e come tale innocua dopo la sua alluvione, Superstudio sperimentava l’impossibile e Poltronova lo seguiva con più attenzione che mercato. A Milano la dichiarazione della pax politica, nella quale si nascondeva, è vero, il germe delle catastrofi successive, fu presa con entusiasmo. D’altronde le arti non hanno la colpa della corruzione morale del principe. E Milano tornò ad essere capitale mondiale dell’inventiva. La lezione del passato era stata per un verso profondo sostanzialmente didattica. Non si pensava più alla separazione obbligata delle arti. La campana d’un neofuturismo suonava e con lei, inconsapevolmente, era tornato in vigore il manifesto per la ricostruzione futurista dell’universo, quello che già nel 1915 aveva sanzionato la mescolanza fra arti una volta considerate maggiori e quelle applicate, secondo la dicitura delle Camere di Commercio, “all’industria”. In questa nuova versione l’industria diventava industriosità come il futurismo s’era fatto voglia di futuribile. Artemide metteva in gioco la propria forza produttiva con un laboratorio che fu chiamato Memphis e dove l’Ettore Sottsass coltivava il germe d’una nuova generazione di de Lucchi o di Cibic. Ma gli esperimenti più inattesi avvenivano in laboratori più segreti. Uno di questi fu quello della Agneta Holst. Lei era ben piazzata per raccogliere cavie e provette. I rapporti con l’occhio fotografico dei coniugi Ballo le derivava direttamente dagli imparentamenti famigliari di Oliviero Toscani. La sua cultura personale era geneticamente cosmopolita. I rapporti già coltivati fiorirono immediati in un mondo dove l’architettura di ricerca aveva perso la committenza e le arti visive erano alla ricerca d’un superamento di quegli schemi d’avanguardia che languivano ormai nel tedio dell’Accademia. Anzi alcuni degli architetti più creativi dell’epoca, quelli che non avevano trovato spazio nei laboratori nuovi, si dedicavano a costruire direttamente nel disegno stesso se non addirittura sulla tela dipinta. Era quello il caso, indicato o promosso in altri ambienti, di Aldo Rossi come di Arduino Cantafora e di Massimo Scolari. Con la Holst altri ancora ebbero la fortuna, come il Mauro Lovi, di far uscire dalle tele le loro invenzioni per rovesciarle direttamente fra le mani del manufattore. Ed iniziò così un percorso dove era indifferente l’equilibrio formale e etico fra arte e design. La permeazione da un ambito all’altro era assolutamente naturale e non prevedeva complessi di superiorità ma solo l’entusiasmo del fare. Il percorso era al contempo ludico, intellettuale e creativo.
Riproporre oggi quell’esperienza d’un quarto di secolo fa non è affatto l’ultimo atto d’una riscoperta del modernariato. E’ all’opposto un desiderio legittimo di rientrare nel dibattito in corso. La questione recente è invero assai equivoca: il mercato dell’arte si trova a corto di materiali nuovi da proporre e che siano tuttora suscettibili di sorprendere. Ha compiuto quindi il passo più evidente andando a cercare energie nel vasto mondo del design; ha tentato di trasformare i prodotti del design in merce adatta agli appetiti commerciali del cursus honorum precedente il parnaso delle case d’asta, e per un certo verso c’è riuscito. Ma proprio così facendo ha annullato il tema centrale del design sperimentale, che si è sempre svolto attorno all’utopia. L’utopia s’è ovviamente immediatamente vendicata e il design fatto arte s’è fatto pure banale. Doveva rispondere a regole che sue non erano e che sue non poteva sentire. Ora Megalopoli, lo dice la parola stessa, era un’utopia, con i suoi necessari attributi mitomani, con la voglia profonda di mutare e migliorare il mondo. Avrebbe potuto scomparire negli anni della grande scorpacciate dell’arte contemporanea. Ha resistito e si ripresenta oggi con un messaggio utopico inalterato, e come tale forse tuttora efficace, e per questo preciso motivo attuale.

 

 

LE FOTO DELLA COLLEZIONE MEGALOPOLI SONO STATE GENTILMENTE CONCESSE DALLO STUDIO BALLO+BALLO

CATALOGO

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